Outdoor training e formazione esperienziale

Gli approcci esperienziali sembrano essere una delle possibili soluzioni al problema e, tra questi, le attività formative in outdoor, attive negli Stati Uniti fin dagli anni ’80, hanno dato risultati ottimi. La specificità di questi approcci è che essi permettono ai partecipanti di sperimentarsi e provare situazioni reali, da soli o in gruppo, avendo, inoltre, la possibilità di riflettere a posteriori sulle dinamiche conoscitive, relazionali ed emotive che si sono verificate durante l’azione, e di evincere le “lezioni” in termini di sviluppo e apprendimento futuro

e mettere in campo capacità di confronto con i colleghi e con i trainer. Possiamo definire l’outdoor training come “un insieme di attività, svolte prevalentemente all’aperto e con l’ausilio di materiali che provengono dal mondo della natura (come corde, tavole di legno, bastoni…) o dal mondo dello sport (tecniche di alpinismo, roccia, orienteering, canoa…) o dal mondo del gioco (palle, pupazzi, cartelloni colorati, hula hoop…), che si propone di stimolare e sviluppare nei partecipanti una maggiore capacità di lavorare in gruppo ed un’accresciuta padronanza di sé” [1].

L’utilizzo dell’outdoor non può essere limitato solo a un fenomeno di moda perché ciò di cui tratta sono i temi centrali di ogni organizzazione: il lavoro di gruppo, la costruzione del “team”, l’individuazione delle persone eccellenti, il problem solving, l’empowerment delle persone e dell’organizzazione, la motivazione e il clima aziendale, ecc. L’outdoor è, a tutti gli effetti, una metodologia di apprendimento “simulativa”, che si caratterizza per la significatività e la memoria stabile di apprendimento, fattori proporzionali alle energie emozionali mobilitate.

Nel dettaglio, l’outdoor training è un percorso di apprendimento che si realizza in un contesto naturale, per un tempo determinato (2/3 giorni), basato sulla sperimentazione diretta da parte dei partecipanti di “attività-esercizi” strutturati, con gradi di complessità crescente [2]. Per realizzare ogni “attività-esercizio”, i partecipanti, in gruppo e/o individualmente, devono mettere in campo tutte le proprie capacità, a partire da quelle legate alla risoluzione del problema posto: devono attivarsi per comprendere la situazione esistente, il problema posto; devono effettuare una analisi delle cause, dei vincoli; devono immaginare la problematica risolta e da qui devono attivare la ricerca delle soluzioni possibili, prendendo le relative decisioni e attivando la realizzazione del piano d’azione concordato. Nel fare tutto ciò, i partecipanti all’outdoor training devono essere in grado di gestire l’ansia che deriva dall’affrontare situazioni non abituali che coinvolgono il “corpo” e non solo la “mente”, devono conoscere e governare i propri stati emotivi, mettere in campo capacità di leadership e di comunicazione interpersonale, devono riuscire a svolgere le attività e le azioni in relazione con gli altri, in gruppo, ed ottenere risultati non solo come singoli individui ma come membri di un team.

La lettura “cognitiva” del contesto nel quale un team si trova ad operare è il vero perno su cui si basa l’apprendimento su simulazione. In questo scenario i partecipanti sono gli attori del film, gli sperimentatori, e i trainer sono solo dei facilitatori dei processi di apprendimento. L’attività diventa un laboratorio di sperimentazioni, di situazioni reali che il partecipante è invogliato a vivere, agire, sperimentare, mettendosi in gioco come membro di un gruppo che ha l’obiettivo di produrre un risultato “concreto” in un arco temporale ristretto e nel rispetto di alcuni vincoli esplicitati in forma di "regole del gioco". E’ proprio in una fase iniziale di costruzione del patto di apprendimento tra organizzazione, trainers e partecipanti, definito “briefing” [3], che vengono esplicitate sia la metodologia di apprendimento alla base dell’outdoor training sia il percorso che verrà realizzato attorno alla “metafora” che lo circonda.

La metafora dell’outdoor training va costruita in analogia con la realtà professionale dei partecipanti, rappresenta il filo rosso delle attività che verranno realizzate dai partecipanti, e costituisce il canovaccio su cui si intrecciano i cicli di apprendimento attivati sul campo attraverso i “debriefing”. Sono infatti i momenti di “debriefing”, una volta conclusa l’attività outdoor, che permettono di realizzare il vero e proprio apprendimento attraverso l’analisi dell’accaduto, sia in termini individuali sia di gruppo, attraverso l’esplorazione e la valutazione dei comportamenti espressi dai partecipanti e delle dinamiche di gruppo sperimentate, la costruzione di senso di quello che è stato vissuto rispetto alla vita lavorativa reale, per approdare alle nuove possibilità di azione e pensiero, individuali e collettive [4].

L'apprendimento cognitivo ci dimostra che l'uomo, molto più degli animali, apprende anche osservando le azioni degli altri, immagazzinando la rappresentazione del comportamento e il suo esito (punizione o rinforzo) e, sulla base di esperienze precedenti, prevede l'esito di un comportamento (e dunque, la propria modalità futura di azione) di cui non abbia ancora avuta alcuna diretta esperienza. È in questa ottica che possiamo leggere il valore aggiunto della formazione outdoor, nella capacità di generare un coinvolgimento oltre che intellettuale anche emotivo delle persone, che produce un apprendimento più rapido e più stabile e, soprattutto più coinvolgente, memorabile.

Arrivata in Italia alla fine degli anni 80, con i programmi proposti dalle multinazionali americane per le filiali italiane, la formazione outdoor è da sempre stata utilizzata prevalentemente per percorsi formativi rivolti ai manager, un po’ per il coinvolgimento a 360° della propria persona che questi percorsi richiedono ai partecipanti e un po’ per i costi elevati che servono per realizzarli. Le organizzazioni fino ad oggi quindi hanno indirizzato principalmente l’outdoor training a popolazioni di dipendenti che hanno livelli direzionali e che hanno quindi stipulato con l’azienda un “contratto psicologico” che comporta attenzione, possibilità di sviluppo, non solo di carriera ma anche di competenze, prestazioni sempre più elevate e fiducia reciproca, condivisione del rischio, continua messa in gioco.

La sfida dell’outdoor training, sta nel coinvolgere il partecipante in percorsi che abbiano uno sfondo metaforico “isomorfo e sensato” [5], che strettamente rimanda per analogia alla loro realtà organizzativa o operativa, che sia avventuroso e non banale, che apra spazi di possibilità e dia vision agli individui e al gruppo su mondi possibili migliori. Affinché la “metafora” del percorso outdoor sia efficace, è necessaria una fase preliminare alla progettazione che possiamo definire “di svelamento” della metafora, dove il committente viene supportato dai consulenti nel “nominarla” (identificarla o costruirla da zero), in modo tale che la costruzione avvenga “insieme”. La metafora ha l’obiettivo di collegare come un “filo rosso”, le diverse attività che vengono realizzate nel percorso outdoor tra loro all’interno di un contesto narrativo (una storia) e con le attività lavorative affinché sia più facile attuare il trasferimento degli apprendimenti dal “qui ed ora” al “là ed allora”.

Inoltre, il partecipante deve essere messo nella condizione di esercitare la libertà di partecipare o meno a certe attività, avendo a disposizione più alternative di scelta. Diventa quindi di fondamentale importanza progettare percorsi paralleli con attività di complessità e difficoltà differenti, che possano coinvolgere persone diversamente disponibili. La presentazione del percorso deve essere espressa quindi come opportunità (e non come obbligo); la stessa cosa vale per la conseguente restituzione a ciascuno e al gruppo della responsabilità del proprio livello di partecipazione e coinvolgimento, in ottica di apprendimento. Ecco perché l’approccio empowerment [6], che utilizza, tra le altre, come “regole del gioco” l’internal locus of control e il positive operative thinking, serve per rimarcare l’importanza di essere i protagonisti del percorso, sperimentando la libertà di portarsi via come esperienza ciò che si ritiene utile, focalizzandosi sulle proprie azioni e non su quelle altrui, su quello che c’è a disposizione e non su quello che manca.

La formazione outdoor quindi è particolarmente adatta nella formazione comportamentale e nel team building, ma si sta diffondendo sempre più nelle attività formative più tradizionali, metodologiche e di contenuto, anche come supporto alle azioni di intervento organizzativo sulle popolazioni più operative.  La formazione-intervento in outdoor permette infatti il trasferimento di concetti e conoscenze, quindi non solo di comportamenti, attraverso un apprendimento basato sull’azione e sulle esperienze dirette. In quest’ottica è anche possibile utilizzare la modalità outdoor per avviare cicli di problem solving, mirati a realizzare interventi di miglioramento e sviluppo o finalizzati al conseguimento di opportunità strategiche, per avviare e consolidare cicli di cambiamento, per rafforzare le identità dell’azienda, dei gruppi e delle singole persone.


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[1] A. De Marziani, "Outdoor Training ed Intelligenza Emotiva", Ticonzero, numero 38, Aprile 2003.
[2] AA.VV. Focus sulla Formazione Outdoor, Rivista FOR, fasc. 54-55/2003, Franco Angeli, Milano.
[3] "Briefing" e "debriefing" sono parole mutuate dal lessico militare americano: i primi campi outdoor sono stati realizzati infatti negli Stati Uniti per i reduci del Vietnam e della Corea.
[4] M. Rotondi, Formazione outdoor, apprendere dall'esperienza, Teorie, modelli, tecniche, best practices, 2004, Collana AIF, Franco Angeli, Milano.
[5] M. Valerio, Rivista FOR n° 54-55, 2003.
[6] M. Bruscaglioni e S. Gheno, Il gusto del potere, 2000, Franco Angeli, Milano

 

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