Distruzione creatrice e politica industriale

Non mi sembra di aver sentito nessun serio economista richiedere un nuovo intervento dello Stato nell'economia, così come paventato da  Alesina e Giavazzi sul  Corriere della Sera.  "Le scorciatoie sono pericolose ....L'ansia di accorciare i tempi che intercorrono fra il momento in cui una riforma è approvata e quando essa si traduce in maggior crescita può far commettere gravi errori. Un esempio di scorciatoie pericolose è la politica industriale dirigista.... . Nel Dopoguerra, fra il 1945 e la metà degli anni Settanta, la politica industriale fu un elemento essenziale della nostra rinascita economica.  L'Iri era parte di un sistema finanziario incentrato sulle banche, su relazioni stabili fra banchieri e imprenditori  e un ampio intervento dello Stato nell'economia. Ma erano tempi molto diversi.....erano gli inizi della esperienza industriale. Non era necessario inventare cose nuove, bastava importare tecnologia dagli Stati Uniti e riprodurla, possibilmente facendo meglio di chi l'aveva inventata. Oggi crescere per imitazione non è più possibile perché siamo troppo vicini alla frontiera tecnologica. Oggi si cresce innovando, non imitando. La crescita oggi richiede innovazione e per innovare la politica industriale che tanto successo ebbe nel Dopoguerra non funziona".
Nulla da eccepire sulle valutazioni di contesto ed è condivisibile temere qualsiasi ipotesi che veda  la Cassa depositi e prestiti come regista di una politica neo-statalista. Ciò non esclude che una sana politica economica debba sapere dove e come orientare la propria azione, forse senza entrare nella scelta  di quali settori o imprese dovranno avere successo, ma sicuramente "muovendo" tutte quelle leve che consentano alle imprese che esprimano un potenziale competitivo di "avere successo".
E' certamente vero che l'innovazione è per definizione imprevedibile. Quello di cui abbiamo bisogno è una dose massiccia di «distruzione creativa», ma piuttosto che - come dicono gli autori - "chiudere vecchie imprese per ... essere sostituite da aziende nuove, perché è in queste che più facilmente nascono le idee e si creano nuovi prodotti", sarebbe  forse meno costoso indurre anche molte "vecchie imprese" che hanno consolidato "competenze distintive" pregiate,  a rifinalizzarle in chiave di innovazione di processo e di prodotto per ricollocarsi sul mercato.    Per questo, dicono Alesina e Giavazzi, è necessaria grande flessibilità: "innanzitutto un mercato finanziario e un mercato flessibile del controllo proprietario delle aziende, in cui non si incrostino gruppi di potere inamovibili. Oggi le imprese italiane dipendono troppo dal credito bancario: non era un problema 50 anni fa, lo è oggi. Molte imprese familiari beneficerebbero dal quotarsi in Borsa affidando il controllo a manager esterni. E serve un welfare che consenta la riallocazione del lavoro, proteggendo i lavoratori, non i posti di lavoro. Il contrario della cassa integrazione".

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